domenica 1 maggio 1983

Il prezzo del coraggio nella “terra di pipe”

(Da "Amici della Pipa", Anno VI - n. 3 maggio-giugno 1983, p. 14)

Caro direttore, nella rubrica “La pagina dei lettori” del numero 1/1983 della nostra Rivista hai creduto opportuno pubblicare un mio scritto che ti inviai molto tempo fa e che consideravo un vero e proprio “sfogo” non meritevole di pubblicazione. Il disappunto, e l'amarezza che me ne è derivata in questi giorni, non è legato al fatto che tu abbia pubblicato questo mio scritto (la Rivista mi ha onorato con la pubblicazione di qualcosa di mio su tutti i numeri dello scorso anno e ti sono sinceramente grato per l'attenzione riservata alle mie modeste riflessioni) che tutto sommato riflette il mio pensiero ben noto a te ed ai Lettori in merito all'argomento toccato, ma al livore che ha provocato in qualche persona che potrebbe avere ben più degna collocazione in un mondo diverso da quello della pipa.
I fatti, dunque: martedì 15 febbraio, pomeriggio, ricevo una telefonata interurbana in cui il mio interlocutore (o meglio: l'autore del monologo) non soltanto non si qualifica – forse sapeva di essere sul punto di abbondantemente squalificarsi – ma con una sequela di improperii infiorata da espressioni piuttosto pesanti ed offensive (tipo: terronia, africa, mangiafagioli, ecc.) vomitava tutta la bile causatagli dal mio scritto (perché poi?). A parte la considerazione fin troppo ovvia che chiunque scriva ed affermi alcunché sulle pagine di una qualunque pubblicazione deve poter essere in grado di dimostrare ciò che sostiene, non posso che confermare quanto da me asserito nello scritto che hai pubblicato. Sembrerebbe che le ire dell'anonimo – mi duole doverlo ammettere ma l'accento a volte tradisce – “nordista” (metto volutamente tra virgolette la parola perché merita di essere considerata proprio a livello di autocollocazione sul piedistallo del pregiudizio e del razzismo) sarebbero state provocate dal contenuto delle prime nove righe del pezzo che hai pubblicato.
Ebbene, non ci sarebbe niente di male nel fatto che chiunque si dedichi ad un lavoro di produzione cerchi di perseguire il maggior utile possibile col minor costo: è nella logica delle cose, ma dovrebbe essere altrettanto onesto ammettere che risponde alla realtà il mio asserto circa la reale dimensione del lavoro di produzione di abbozzi dei nostri artigiani: per anni questi abbozzi sono andati – e per lo più ancora oggi vanno – al nord ed all'estero a prezzi ridicoli, se si confronta il prezzo pagato per abbozzi della migliore qualità con il costo finale della pipa. Si dirà che la trasformazione in prodotto finito incide sui costi finali in maniera preponderante, io sostengo, invece, che il valore commerciale della pipa (tanto per essere precisi: quello che viene chiesto dal dettagliante al consumatore, all'amico della pipa!) potrebbe rimanere pressoché identico anche se i costi fossero più elevati alla fonte, cioè a dire all'acquisto dell'abbozzo. Ci sarebbe senz'altro la possibilità di assorbire il maggior costo iniziale del materiale nel corso delle successive fasi di trasformazione e commercializzazione.
Se poi oggi anche quaggiù da noi (mangiafagioli della terronia o africa, secondo la definizione del cialtrone che mi ha telefonato) c'è chi produce pipe “finite”, non credevo si dovesse chiedere il permesso a qualcuno. Perché, caro direttore, che lo si ammetta o no, c'è di fatto che nelle botteghe dei nostri tagliatori e produttori di abbozzi sono passati tutti, o quasi, i bei nomi dell'industria e dell'artigianato della pipa italiana, ed anche estera. Anche se qualcuno oggi non se ne ricorda – o non so perché finge di non ricordare – dai nostri artigiani sono passati anche alcuni dei grandi nomi del nostro “Olimpo Piparo” che all'inizio della loro attività venivano a comprare il sacchetto di abbozzi e placche (naturalmente il meglio del meglio, mentre oggi preferiscono comprare altrove). Orbene, in tutto questo non c'è niente di male, ma non si capisce come e perché – e soprattutto a chi – dia fastidio il fatto che qualcuno di questi nostri bravi artigiani tenti a sua volta un salto di qualità.
Una cosa è certa, caro direttore, e ti prego di considerarla: tutti gli artigiani calabresi – Zerbo, Posella, De Giglio, per citare solo quelli che conosco personalmente – che si dedicano oggi alla creazione di una pipa con il loro nome ad eccezione del solo Grenci (che prima faceva l'ebanista e da quando è passato alla pipa ha sempre e solo tagliato per sé stesso) sono stati in passato tagliatori di ciocco e produttori di abbozzi per altri. Oggi parte della loro produzione la riservano per le loro pipe anche se continuano a produrre e vendere a terzi. Quindi ci troviamo di fronte a gente che la radica la conosce veramente, gente per cui il ciocco è stato pane quotidiano – e non solo in senso metaforico – per una vita intera. Non abbiamo davanti artigiani della domenica od hobbysti di lusso, ma artigiani veri, onesti, seri, che portano lustro alla propria terra, sia che si tratti di nomi ormai affermati che di operatori più modesti. Per la Calabria è un onore essere conosciuta per merito dei suoi “pippari”.
Mi piace infine considerare – e lo faccio serenamente e senza spirito polemico – che molte belle pipe dal nome famoso non esisterebbero se a monte non ci fosse il lavoro modesto, a volte oscuro, quasi certamente misconosciuto, dei nostri segatori di ciocco. Senza la loro sapiente opera, parecchi artigiani della pipa ormai famosi, non saprebbero da dove cominciare per fare pipe: senza un buon abbozzo non ci sarebbe la bella pipa.
L'arroganza, l'ignoranza ammantata di boria, sono manifestazioni tipiche di chi cerca di nascondere la propria pochezza morale e – soprattutto – lo scarso valore di ciò che si arrabatta di fare; il brutto è – purtroppo – che queste cose le nasconde anche a sé stesso.
Grato per l'attenzione, ti saluto con la consueta cordialità.

Floro Caccia
Catanzaro

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